Giorgio Napolitano: Stato-Mafia. I verbali scioccanti dell’interrogatorio …
Trattativa Stato Mafia, la trascrizione della deposizione di Giorgio Napolitano
E alla fine, dopo tre ore di infinita pazienza, la dice cosi il Presidente della Repubblica: “Scusi, avvocato, se vogliamo fare qui un talk show sulla storia della Repubblica…”.
Il teste Napolitano fronteggia con sottile ironia, spesso sarcasmo, l’avvocato Luca Cianferoni, il legale di Totò Riina. Che ha avuto l’onore di aver allargato l’oggetto delle domande da porre al Presidente della Repubblica nell’udienza in cui ha testimoniato sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Ma non ne ha potuto sostenere l’onere. Finendo per mettere a nudo l’inopportunità di una testimonianza così alta, inedita e a lungo cercata.
L’auspicio del Quirinale è stato esaudito. E all’ora di pranzo la cancelleria della Corte d’Assise di Palermo ha consegnato alle parti la trascrizione dell’udienza del 28 ottobre. L’udienza in cui per la prima volta nella storia della Repubblica un presidente della Repubblica in carica è stato teste in un processo che tratta di quella zona grigia e marcia che sono i rapporti tra mafia e politica. Certo, mancano i volti, gli occhi, le espressioni, gli acuti e i bassi della voce. Ma le 86 pagine con ben 147.784 caratteri fanno il miracolo di restituire molto, parecchio, di quella mattina che finirà sui libri di storia. Diciamo subito, come hanno già riportato le cronache del giorno dopo, che il processo in quanto tale non sembra fare mezzo passo avanti.
Nulla si aggiunge circa la prova che nel biennio ’92-’94 lo Stato rispose con qualche “pizzo” alla richiesta di estorsione che Cosa Nostra recapitava a suon di bombe, tritolo e morti ammazzati. Il Capo dello Stato racconta con drammaticità come le bombe della primavera-estate del ‘93 fossero letti come “i nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia che faceva capo ai corleonesi”. Non ha dubbi nel definire quella dinamica “ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema probabilmente presumendo che ci fossero reazioni di sbandamento delle autorità e delle forze dello Stato”. Ma è altrettanto netto nel dire che il Parlamento e il governo “non esitarono mai nella lotta al nemico mafioso”.
E anzi, ebbero proprio in quell’estate “un colpo di accelerazione decisivo”. Nelle 86 pagine brilla anche l’eloquio fluido e lucido del Presidente della Repubblica. Normalmente queste trascrizioni contengono pagine e pagine di frasi senza costrutto, prive di sintassi, illogiche, contenitori di segni ortografici perché il verbale d’udienza deve riferire anche i sospiri e le esclamazioni. Napolitano invece ha parlato, ha risposto alle domande, come un libro stampato.
“M’IMPEGNO A DIRE TUTTA LA VERITA’…”- Anche se organizzata al Quirinale, è un’udienza come tutte le altre. Sappiamo che la Corte, tre togati e otto giudici popolari, siede dietro una lunga scrivania modello fratina; sulla destra gli scrittoi per la pubblica accusa, il procuratore reggente Agueci, l’aggiunto Teresi, i pm Di Matteo, Tartaglia, Del Bene; davanti i banchi per i circa 25 avvocati; sulla sinistra la scrivania del teste, il padrone di casa Giorgio Napolitano. La sala del Bronzino diventa così “aula” anche nelle parole del presidente Montalto. E dopo i ringraziamenti del Presidente Montalto per “la disponibilità”, “l’ospitalità” e “l’organizzazione” e l’omologo omaggio del procuratore, il teste Napolitano pronuncia la frase di rito. “Mi chiamo Giorgio Napolitano, sono nato a Napoli il 29 giugno 1925….Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”. L’udienza ora può iniziare.
“LA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA? UN LAVORO DI SQUADRA” – E’ noto come la deposizione di Napolitano nasca dalla lettera del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio che nel giugno 2012, mentre da mesi i giornali danno conto delle intercettazioni registrate dalla procura di Palermo tra lui e Mancino (imputato in questo processo per falsa testimonianza), decide di dare le dimissioni dall’incarico. Dimissioni respinte. Un mese dopo D’Ambrosio morì stroncato da un infarto. Nella lettera il consigliere teme di “essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Dietro questa allocuzione la procura è convinta che si nasconda il prezzo che lo Stato pagò per mettere a tacere le bombe. Il teste Napolitano le ha definite “ipotesi prive di sostegno oggettivo perché altrimenti il magistrato eccellente Loris D’Ambrosio avrebbe saputo benissimo quale era il suo dovere”.
Al “nodo” D’Ambrosio è dedicata la prima parte dell’interrogatorio della procura, quella affidata all’aggiunto Teresi. Che diventa l’occasione per declinare pubblicamente “l’uomo di grande cultura ed esperienza giuridica che è stato il dottor D’Ambrosio”. E raccontare dall’interno la quotidianità di un Presidente. D’Ambrosio svolgeva “un’attività piuttosto comprensiva” cioè ampia rispetto a quello che faceva prima dell’arrivo di Napolitano al Colle nel 2006. “Con lui, con il Consigliere militare, con il Consigliere diplomatico, con il Consigliere per gli Affari giuridico-costituzionali avevo un rapporto quasi quotidiano, magari per telefono. Avendo il diretto sul mio apparecchio potevo in qualsiasi momento sentire uno o l’altro di questi consiglieri perché le loro mansioni hanno una valenza molto importante nello sviluppo dell’attività politica e istituzionale del presidente della Repubblica”.
Un rapporto, quello con D’Ambrosio e gli altri consiglieri, “di affetto e stima ma non di carattere personale in senso più ampio o più specifico (…) Ho sempre tenuto i rapporti di lavoro su un binario di lealtà e anche severità. Non avevo né con D’Ambrosio né con altri conversazioni a ruota libera o ricostruzioni delle nostre esperienze passate. Eravamo, anche se questo è difficile farlo intendere, una squadra di lavoro. In Italia c’è una Repubblica, non c’è una monarchia, non c’è una Corte. C’è attorno al Presidente della Repubblica come istituzione monocratica una squadra di lavoro e solo di lavoro quotidiano, corrente. Discutevamo tra noi… stavamo ogni giorno sulla palla, su quello che si può considerare il nucleo vivo dell’attività che si sviluppa in Parlamento, da parte del Governo e su cui io ho in certi limiti una voce da far assentire”.
“NULLA DA NASCONDERE” – Il teste Napolitano indugia a lungo su D’Ambrosio rispondendo a tutte le domande di Teresi. Parla della “grande ansietà e insofferenza per quello che era accaduto con la pubblicazione delle intercettazioni di telefonate tra lui stesso e il senatore Mancino. Era preso da questa vicenda, esasperato, sconvolto e anche un po’ assillato da queste telefonate. Punto e basta”. Ricordando il suo consigliere giuridico, Napolitano prova a spiegare perché ha voluto pubblicare, nel volume dedicato alla Giustizia, i testi dello scambio di lettere tra loro. E quali sono i limiti della trasparenza e della riservatezza del mandato presidenziale. Un messaggio dedicato a quanti, tanti, in questi anni, lo hanno tirato per la giacca speculando sui retroscena della deposizione presidenziale.
“Vorrei pregare la Corte e voi tutti – dice – di comprendere che da un lato io sono tenuto e fermamente convinto che si debbano rispettare le prerogative del Capo dello Stato così come sono sancite dalla Costituzione. Dall’altra mi sforzo, faccio il massimo sforzo, per dare nello stesso tempo il massimo di trasparenza al mio operato e il massimo contributo anche all’amministrazione della giustizia. Sono, certe volte, proprio su una linea sottile: quello che non debbo dire non perché abbia qualcosa da nascondere ma perché la Costituzione prevede che non dica; quello che intendo dire per facilitare il più possibile un processo di chiarificazione di una Repubblica e anche lo sviluppo della legittimazione di indagine e processuale della magistratura”.
E comunque, se proprio si deve provare a leggere nel profondo le parole usate da D’Ambrosio, e “interrogarsi sul loro significato data la loro drammaticità” sono altre le personalità che potrebbero forse rispondere, quelle che “hanno avuto con lui rapporto in quegli anni”. Napolitano li indica: “il ministro della Giustizia, il ministro dell’Interno, la commissione Antimafia, tutti incarichi che io certo non ho ricoperto tra l’89 e il ‘93”. All’epoca, cioè, in cui D’Ambrosio colloca “gli indicibili accordi”.